sabato 5 aprile 2014

Cara Sandra, le porte devono essere sempre aperte, in particolar modo in questa bella stagione primaverile, nella quale i nostri pensieri volano insieme ai giovani abitatori del cielo che riempiono l'aere con il loro meraviglioso cinguettio.
Ogni tanto mi fermo perché preso da altre incombenze, come oggi che alle 16 e 30 sono al Castello per la presentazione  di un libro di poesie del ns concittadino, ora abitante ad Este, Giacomo Mainardi. Inoltre verso le 17,30, vado all'inaugurazione della Loggetta restaurata e leggerò un mio pensiero poetico.
 ora continuo con il diario! Un abbraccio e sempre grazie di cuore. Giancarlo



Ricordo la strada polverosa e sconnessa, i carretti che avanzavano lentamente, trainati da cavalli stanchi.  Eugenio, il carrettiere, veniva dalle valli, dove aveva caricato la " torba", caricata nelle torbiere ai piedi di Arquà Petrarca, doveva consegnarla agli opifici per trasformarla in mattonelle che poi divenivano combustibile per stufe e forni. Eugenio partiva allo spuntare dell'alba, strigliava il suo ronzino , lo dissetava e gli dava un pò di fieno, caricava la biada, si metteva un pezzo di pane nero nella tasca rattoppata della giacca e poi incominciava la lunga giornata che terminava all'imbrunire, quando il sole calava laggiù nella valle.

Con i miei compagni passavo il pomeriggio a giocare sul ponte della pescheria, la piccola salitella che portava al ponte fatto a dorso di mulo che univa le due sponde del canale "Bisatto". Il ponte faceva rallentare i carri e il passo ai viandanti, perciò ci veniva naturale osservare le persone che venivano in paese da quella parte. Uno dei nostri giochi , ma non proprio perché erano corbellerie, era attendere l'arrivo i carretti e salire, con un balzo, dietro il carro stesso, per poi ridiscendere quando arrivava in cima al ponte, il carrettiere che non s'arrabbiava mai pur vedendoci, era Eugenio, per questo motivo mi è rimasto il suo bel ricordo.

Un'altra, delle piccole corbellerie, che usavamo compiere in quei tempi, era attendere l'arrivo delle donne di Arquà, queste arrivavano,
 dalle loro case sulle colline, cariche di cesti di fichi, di melograni, di giuggiole, di uva, frutti che di volta in volta la stagione maturava. Queste donne erano vestite di nero, con sottane lunghe, zoccoli e un fazzoletto in testa, sempre di colore scuro, avevano sulle spalle una arco di legno che alle due estremità aveva due uncini, noi lo chiamavamo "bigoo". A questi due uncini erano attaccati i cesti della frutta, coperti da tovaglioli. Quello che noi ragazzi avevamo inventato, era una delle monellerie che ci faceva divertire di più, aumentare in destrezza e ci faceva mangiare qualche buon frutto. Di solito eravamo in due, andavamo incontro alla donna che avanzava stanca sulla via, e poi  ci piazzavamo uno da un lato e uno dall'altro, uno la salutava e nel mentre la donna si girava, l'altro gli prendeva la frutta dall'altro cesto, e poi via di corsa, ancora tremanti, ad assaporare il fresco frutto.

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